Il jeans, ancora una volta, icona del cambiamento

Immagine
  Il jeans ha un fascino intramontabile, tuttavia non bisogna dimenticare che genera un impatto ambientale importante. Per ridurlo, si fanno strada diversi progetti sui fronti del design e del riciclo. di Redazione Nel mondo occidentale, il jeans è sicuramente il materiale più iconico nel settore tessile e nella moda in generale. Il più versatile e anche il più controverso, quando si parla delle sue origini. Il primo tessuto “blue jeans” pare sia stato realizzato in una fabbrica manifatturiera di Nîmes, in Francia : da qui si pensa derivi la parola denim, ma c’è ancora molto dibattito in materia. Ci sono, infatti, testimonianze ben più antiche, come alcune statuine di presepe tardo settecentesche conservate al Museo Civico Luxoro di Genova, che sembrano documentare come il jeans fosse comunemente utilizzato per confezionare gli abiti da lavoro e da festa già all’epoca. Addirittura, i pantaloni indossati da Giuseppe Garibaldi quando partì nel 1860 alla volta di Marsala erano di fustagn

TCE, un progetto "modello" per contrastare l'HIV


Circa il 65% delle persone che convivono con il virus dell'HIV si trovano nel continente africano. Il programma TCE (Total Control of Epidemic) di Humana punta, fra le altre cose, a favorire una diagnosi tempestiva della malattia ed è stato adottato come modello dai diversi governi, tra cui quello della Namibia.

di Alessandra Di Stefano

Era il 5 giugno 1981 quando i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie degli Stati Uniti segnalarono un inspiegabile aumento dei casi di polmoniti e di una rara forma di tumore dei vasi sanguinei, il sarcoma di Kaposi, nelle città di Los Angeles, San Francisco e New York. Fu il primo allarme legato all’AIDS. Dalla scoperta dei primi casi sono passati 40 anni, nei quali l’HIV ha colpito oltre 75 milioni di persone in tutto il mondo. A causa della malattia e di patologie correlate sono morte oltre 39 milioni di persone mentre, solo nel 2020, sono stati registrati 1,5 milioni di nuovi casi. Le Nazioni Unite hanno inserito la lotta all’AIDS tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile con lo scopo di debellare entro il 2030 l’epidemia (OSS 3). Nonostante siano stati compiuti importanti passi in avanti, gli sforzi non risultano sufficienti. Se nei Paesi occidentali l’AIDS è diventata una malattia cronicizzata che si può tenere sotto controllo con la giusta terapia antiretrovirale, nel Sud del Mondo persistono enormi disparità nel tracciamento e nell’accesso alle cure. Secondo gli ultimi dati forniti da UNAIDS sono 38 milioni le persone che convivono con il virus e di queste oltre 25 milioni si trovano nel continente africano. L’Africa Subsahariana è l’area geografica più colpita dall’epidemia. Le difficoltà di accesso ai servizi di cura, la scarsa preparazione dei sistemi sanitari nazionali e comportamenti socio-culturali errati, aumentano il rischio di contagio. La pandemia da Covid-19 ha reso evidenti le debolezze a tutti i livelli (globale, regionale, nazionale) e ha aggravato il mancato raggiungimento dei target ONU 2020, tra cui quello di portare sotto le 500 mila unità il numero delle nuove infezioni e dei decessi. Per il quinquennio 2021-2026, le Nazioni Unite hanno quindi lanciato una nuova strategia di contrasto all’epidemia (“END INEQUALITIES. END AIDS”) che evidenzia la necessità di un cambio radicale nell’approccio alla malattia. Studi e ricerche hanno evidenziato che per sconfiggere l’AIDS occorre combattere disuguaglianze e discriminazioni, mettendo le persone al centro di ogni strategia sanitaria. In molti Paesi a basso e medio indice di sviluppo le disparità socio-economiche come povertà, disoccupazione e disuguaglianza di genere sono il principale ostacolo nella lotta al virus.

La Federazione Internazionale Humana People to People è attiva da oltre 20 anni nella lotta contro l’HIV/AIDS attraverso un programma specifico chiamato TCE (Total Control of Epidemic). Si tratta di un modello di intervento innovativo che dal 2000 ha raggiunto oltre 21 milioni di persone in 12 Paesi in Asia e Africa Subsahariana. Come in tutti i programmi di cooperazione implementati da Humana, l’approccio utilizzato con il TCE pone al centro dell’azione le persone e la comunità. Sotto il motto: "Solo le persone possono liberarsi dall'AIDS " il programma ha aiutato migliaia di persone, fornendogli gli strumenti per combattere l'HIV/AIDS e vivere una vita dignitosa. Il programma punta a favorire la diagnosi tempestiva e l’accesso precoce alle cure e a combattere lo stigma e la discriminazione mediante il lavoro attivo all’interno della comunità. Attraverso test e cure a domicilio i volontari impiegati nel programma si assicurano che le persone seguano in modo corretto le cure e che queste siano efficaci per abbattere la carica virale del virus. Il lavoro di Humana è allineato con i principali programmi delle Nazioni Unite per la lotta all’HIV/AIDS tra cui la strategia 95-95-95[1] ed è riconosciuto come modello di intervento virtuoso apprezzato dai principali attori internazionali impegnati nella lotta all’AIDS. Il lavoro del TCE è in continua evoluzione. In Namibia, dove Humana lavora a stretto contatto con il Ministero della Salute e con il CDC (United States Centre for Disease Control and Prevention), è stata implementata una nuova metodologia per testare i malati di HIV nota come Index Partner Testing. Questo nuovo strumento ha ottenuto enormi risultati tanto che il PEPFAR, il programma statunitense per la lotta all’HIV, vuole sperimentarlo anche in altri Paesi africani. Infatti, a differenza dei classici test porta a porta, l’Index Partner Testing mira a testare i partner delle persone risultate positive al test con un significativo aumento nell’individuazione di nuovi dal 2 al 7.7%.[2] I Paesi nei quali opera la Federazione sono tra i più colpiti dalla diffusione del virus dell’HIV e hanno sistemi sanitari fragili; per questo la diffusione della pandemia ha reso necessario un enorme sforzo per non vanificare i progressi raggiunti negli ultimi anni. Il TCE ha rafforzato la propria azione verso i gruppi più a rischio e le popolazioni più vulnerabili dando priorità a chi ancora non ha accesso ai servizi e ai trattamenti.

Dopo 40 anni di lotta al virus, la crisi pandemica da Covid-19 ha messo in evidenza quanto siano importanti il lavoro congiunto e l’approccio collaborativo tra i diversi settori della società: governi, settore privato, mondo accademico, organismi di finanziamento intergovernativi e società civile. Il Covid ha messo in luce quanto sia fragile il mondo nel quale viviamo. Solo lavorando insieme per una società più equa, sostenibile e solidale l’umanità potrà sconfiggere l’HIV e le altre sfide che si troverà ad affrontare.



[1] La strategia 95-95-95 delle Nazioni Unite prevede che entro il 2030 il 95% delle persone affette da HIV conosca il proprio status, che il 95% delle persone che hanno contratto il virus sia sotto trattamento e che il 95% dei malati abbiano soppresso la carica virale del virus.

[2] https://www.devex.com/news/inside-namibia-s-hiv-success-story-93215


Commenti

Post popolari in questo blog

Una roadmap per ridisegnare il futuro del settore tessile in Europa

Incontri informativi Mozambico 2017

Usato, una scelta responsabile e sostenibile per le nuove generazioni